La diffusione via WhatsApp a un solo destinatario delle fotografie pornografiche minorili, anche se originate da selfie, rientra nell’ipotesi di reato prevista dall’articolo 600-ter, comma 4, del Codice penale, che punisce con la reclusione fino a tre anni la cessione, anche a titolo gratuito, di materiale pedopornografico, a prescindere da chi abbia scattato le fotografie. La pronuncia della Cassazione 5522 depositata il 12 febbraio scorso chiude il cerchio sulla divulgazione dei selfie erotici autoprodotti dai minorenni.
Il caso – La sentenza prende le mosse dal caso di uno studente che durante una gita, dopo aver scattato alcune foto di gruppo con il telefono della vittima, l’ha trattenuto a sua insaputa, incuriosito dai selfie erotici trovati nella gallery. Prima di restituire il cellulare alla ragazza, lo studente ha fotografato i selfie con il suo telefono e li ha inviati a un amico comune, che a sua volta li ha divulgati su un gruppo WhatsApp composto da circa 20 persone. Di qui la denuncia del padre della ragazza, minorenne all’epoca dei fatti, da cui scaturisce il processo penale instaurato solo nei confronti dello studente che aveva diffuso gli scatti la prima volta e non di chi li aveva poi inoltrati.
In primo grado, il Gup di Salerno ha assolto il ragazzo perché il materiale erotico era autoprodotto dalla vittima e perché non era stato divulgato a più persone ma solo a una.
L’appello – Di diverso avviso la Corte d’appello che ha condannato l’imputato per il reato di cessione di materiale pedopornografico, previsto dall’articolo 600-ter, comma 4, del Codice penale, punito più lievemente rispetto al comma 3, che prevede la pena della reclusione fino a cinque anni quando le fotografie vengono divulgate a gruppi di persone o pubblicate sui social network.
La Cassazione – Il ricorso del ragazzo in Cassazione dà l’occasione ai giudici per fare il punto su una casistica soggetta a interpretazioni difformi. Al centro del dibattito, la questione se il consenso del minore ad autoscattarsi le fotografie erotiche affievolisca fino ad annullare la rilevanza penale della condotta di chi, venuto in possesso dei selfie, li divulghi. Il contrasto si fonda sull’interpretazione dell’articolo 600-ter del Codice penale sulla pornografia minorile, che prevede quattro fattispecie diverse e colpisce la realizzazione dei contenuti pedopornografici, il commercio, la diffusione e la cessione a titolo gratuito.
La fattispecie della produzione del materiale pedopornografico prevede l’“utilizzo” del minorenne, inteso come sfruttamento dello stesso. Per questo, una parte della giurisprudenza afferma che non vi è sfruttamento se il materiale è autoprodotto e che le altre fattispecie prevedono implicitamente lo sfruttamento della vittima.
La Cassazione chiarisce ora che le altre fattispecie non ricalcano l’intera condotta prevista per il reato di produzione di materiale pedopornografico, quindi non rileva che le fotografie siano autoscattate oppure no. Quello che conta è che vi sia una lesione della dignità del minore: non fa la differenza la modalità di produzione del materiale. Nel solco segnato dalla pronuncia 51815 del 2018 delle Sezioni unite, i giudici ribadiscono che al centro della tutela ci deve essere il corretto sviluppo sessuale del minore, minato dalla diffusione non consensuale dei selfie erotici.
Fonte: Il Sole 24 Ore del 24 febbraio 2020