“Ignorantia iuris non excusat”, solevano dire i nostri antenati, attraverso una locuzione che nel corso degli anni ha assunto molteplici sfaccettature. È vero, la presunzione che il cittadino, latamente inteso, conosca la legge applicabile è una necessità prima che una verità. Ci sono, tuttavia, circostanze in cui l’inconsapevolezza/superficialità/furbizia regna, con la correlata possibilità di celarsi dietro un cavillo per evitare il peggio.
(Nella foto: Guerrino Pescali, Delegato Federprivacy nella provincia di Brescia)
Ed è ancora e proprio il frequente uso dei social network a condurre ad una nuova, parallela e straziante verità: l’alzarsi dell’asticella della liceità di ciò che con essi viene compiuto.
E allora le affermazioni divengono “colorite” e non più diffamanti, i commenti sono “frutto di una democratica libertà di pensiero” e non più calunniosi, le foto sono “artistiche manifestazioni di una giovinezza lieta e spensierata” e non più potenziale materiale di pornografia minorile, le avances alla collega o al collega, più o meno velate o più o meno spinte, sono solo fraintese attenzioni e/o galanterie.
Certo, i social costituiscono la massima espressione di libertà di opinione, una vetrina attraverso cui condividere la propria vita, accogliendo a braccia aperte il consenso di amici, followers e spettatori in generale. Un tramite per mostrare – o dimostrare – le proprie capacità, i propri talenti e, più in generale, la propria persona.
Chi scrive si affaccia alla metà del secolo che lo ha visto nascere con tutta la preoccupazione di una realtà che, a tratti sempre più marcati, diviene sempre più sottile e appannaggio di una realtà virtuale; dove concetti come giusto, sbagliato, corretto, morale, legale o illegale, rischiano di fondersi in colorati sofismi.
I mostri dei bambini non stanno più solo nell’armadio o sotto il letto – La recente sentenza della Corte di Cassazione penale dell’8 settembre 2020, n. 25266, ha chiaramente stabilito che scatta il reato di violenza sessuale di cui all’articolo 609 bis cod. pen. per colui che invia foto hard ad un minore mediante WhatsApp anche senza alcun tipo di contatto fisico.
A sua difesa l’indagato sosteneva che, al più, si trattava di adescamento sessuale (come se ciò fosse meno esecrabile) ex art. 609-undecies cod. pen. e non di violenza sessuale, dal momento che “Mancava l’atto sessuale, seppur allo stadio del tentativo, non essendo avvenuto alcun incontro tra lui e la presunta persona offesa”.
Invero la Cassazione, tenuto conto dell’utilizzo sempre più diffuso e quotidiano dei social e in particolar modo di WhatsApp, ha configurato appieno la presenza del reato di violenza sessuale, pur in mancanza di un incontro fisico, poiché, come ha confermato il Tribunale del Riesame di Milano, la violenza sessuale risulta pienamente integrata, pur in assenza di contatto fisico con la vittima, “quando gli atti sessuali coinvolgessero la corporeità sessuale della persona offesa e fossero finalizzati e idonei a compromettere il bene primario della libertà individuale nella prospettiva di soddisfare o eccitare il proprio istinto sessuale”. Nel caso specifico sono stati peraltro ravvisati “i gravi indizi di colpevolezza del reato contestato nell’induzione allo scambio di foto erotiche, nella conversazione sulle pregresse esperienze sessuali ed i gusti erotici, nella crescente minaccia a divulgare in pubblico le chat”.
Decisione encomiabile sotto tutti gli aspetti, che conferma come il sotterfugio del contatto fisico in un’epoca dove larga parte della nostra esistenza si svolge – e si manifesta – tramite uno schermo comincia a rivestire profili sempre più preoccupanti e dubbi.
Questa sentenza appare sicuramente decisiva nel configurare il caso della costrizione della vittima a condividere proprie immagini intime alla stregua di una violenza sessuale e si pone a coronamento di una serie di precedenti che hanno affrontato la medesima questione: già con la sentenza del 30 ottobre 2018 n. 17509, la Cassazione penale aveva escluso in una simile circostanza l’attenuante del fatto di minore gravità dovuta alla mancanza di contatto fisico tra l’agente e la vittima a cui venne richiesto, nel corso di una chiamata, di filmare gli atti sessuali e trasmetterli all’interlocutore.
Gli sconcertanti casi sopra citati costituiscono un valido punto di partenza per svolgere una breve considerazione frutto del clamore che tra le persone comuni e gli addetti ai lavori, a volte, il concetto di privacy suscita quando si trova in contrapposizione con la percezione da parte del cittadino con il semplice concetto di “giusto o sbagliato”. Nella mente di molti di noi è chiaro il confine tra il primo e il secondo caso, anche se l’attualità ci porta sempre più spesso a giocare con i termini, insegnandoci che un rapporto familiare o una relazione amorosa possono anche non dare origine ad un “congiunto”. Eppure, per quanto semplice, “giusto o sbagliato” è un concetto che fatichiamo ad applicare quando si tratta di calarlo nel mondo legale.
Sub lege libertas – Poco più di due anni fa, l’avvento del GDPR era stato accolto alla stregua di quella normativa che “avrebbe rimesso le cose a posto”, fornendo un rigore e una maggiore responsabilità non solo agli operatori della norma ma anche a coloro che la avessero messa in pratica, tramite la previsione di sanzioni particolarmente deterrenti. Una ventata d’aria fresca, insomma, di stampo squisitamente europeista, che avrebbe apposto delle vistose pezze ad eventuali buchi di trama all’italiana. Tutti, insomma, con l’entrata in vigore del GDPR ci siamo sentiti più protetti… fino a quando questo senso di protezione non sia stato interpretato da taluni malintenzionati come un vantaggio per compiere, in silenzio e dietro l’intramontabile impianto normativo, le loro marachelle in ambito lavorativo, mediatico, pubblicitario, personale e sociale.
Certo, perché se al cittadino comune ciò che rimane impresso di tutta questa sconcertante vicenda è l’indubbio “atto di violenza” commesso da un adulto su di un giovane, ulteriori perplessità emergono anche in capo agli operatori in ambito privacy che talvolta vedono applicata la legge che tutti i giorni ossequiosamente si premurano di far rispettare anche a vantaggio di queste “persone”, che per essere riconosciute (ed evitate) come attori di queste condotte, necessitano spesso di una denuncia da parte di organi non istituzionali, associazioni di cittadini, diretti interessati, al fine di non permettere il verificarsi di nuovi comportamenti deplorevoli nei confronti di altre vittime urtando la sensibilità di adolescenti senza – per le vittime quanto per la nostra coscienza – una valida possibilità di ritorno alla normalità.
Le domande non sono mai indiscrete. Le risposte lo sono, a volte. (Oscar Wilde) – Si fa largo nella mia mente il pensiero di come in questo particolare contesto storico, dove fiumi di parole e opinioni hanno esondato dagli schermi tv e le pagine dei giornali, dimostrandoci come la tutela della privacy appaia come sacrificabile rispetto alla salute della popolazione e al bene comune (ad es. la querelle sulle app di contact tracing), sia necessario porsi una domanda: saremmo disposti a cancellare la privacy di coloro che si macchiano di tali reati che, esattamente come un virus, incidono direttamente sulla salute e sul futuro della nostra Nazione?
Purtroppo a livello legislativo la prevenzione di un comportamento criminoso è di per sé inattuabile, perché significherebbe dover interpretare atti o pensieri che ancora non hanno avuto una loro concretizzazione, minando così al sacrosanto principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
L’unica regola applicabile – e non dirò, per ovvi motivi, “attuabile” – è il buon senso di tutti: dei genitori nel loro dovere di educare i figli, dei figli medesimi a fare un uso ragionato dei propri dispositivi e del proprio corpo, degli adulti (anagraficamente parlando) a sfogare i propri istinti avvalendosi di modalità legalmente lecite, di noi operatori della privacy a responsabilizzare i nostri interlocutori non solo per un’esigenza di conformità, ma anche in virtù della libertà a non subire un uso smodato e talvolta incontrollato della tecnologia e dei nostri dati.
In tutto questo, quale la responsabilità del nostro esecutivo nazionale ? Non spetta a me indicarla o immaginare se ve ne fosse alcuna e di che tipo ma, mi auguro, spero con la stessa animosità con la quale è stata dichiarata utile o inutile la riservatezza dei dati personali in piena emergenza COVID, si possa pensare, in un futuro prossimo e certo, a garantire la sicurezza dei nostri figli tenendoli lontano da rischi intangibili ma fin troppo concreti.
Fonte: Guerrino Pescali, Delegato Federprivacy nella provincia di Brescia