Il sistema di gestione della pubblicita’ online e’ basato sulla raccolta e la condivisione dei dati di comportamento dell’utente. Un sistema di competizione opaco e concentrato nelle mani di poche aziende, tra cui svetta Google. In pericolo ci sono la privacy e la protezione dei dati personali degli utenti, e in Europa si discute su come intervenire Abbiamo invitato la Commissione a considerare l’eliminazione graduale della pubblicita’ mirata, se non un suo divieto totale nell’Unione europea”. A dirlo e’ stato a inizio ottobre Alex Agius Saliba, membro maltese del Parlamento europeo.
La stessa proposta e’ contenuta in un report , appoggiato da tutte le forze politiche, redatto da Tiemo Wölken, europarlamentare tedesco. Qual e’ il problema dell’Europa con la pubblicita’ online, e perche’ e’ importante saperlo?
Secondo un report redatto nel 2018 da Johnny Ryan, al tempo collaboratore del browser Brave, attraverso il sistema delle aste automatizzate (real-time bidding, RTB) vengono condivisi, tra le altre cose: cio’ che l’utente sta leggendo o guardando, la sua posizione, l’indirizzo IP, la descrizione del dispositivo, ecc. A seconda del sistema di RTB usato, possono circolare altri dati che permettono di associare un utente a caratteristiche quali fascia di reddito, eta’, genere, orientamento sessuale, etnia, religione, tendenze politiche, grado di influenza sui social media, ecc.
Cio’ a cui fanno riferimento le dichiarazioni precedenti e’ il sistema della pubblicita’ mirata (in inglese targeted advertising), che mette al centro degli annunci pubblicitari l’utente e i dati legati al suo profilo. Fino ai primi anni 2000 la pubblicita’ online era basata sul contesto . Gli algoritmi analizzavano il contenuto della pagina visitata dall’utente e, in base a cio’ che vi ”leggevano”, stabilivano quali annunci mostrare negli spazi pubblicitari disponibili. Il contenuto pubblicitario era dunque basato sulle caratteristiche dello spazio web che lo ospitava, non di chi vi arrivava. Per fare un esempio: leggendo un articolo sull’andamento della stagione sciistica, poteva capitare di visualizzare la pubblicita’ di un hotel di montagna, o di un marchio d’abbigliamento tecnico per l’alta quota.
La pubblicita’ mirata si basa invece su un sistema piu’ complesso, finalizzato a mostrare l’annuncio piu’ pertinente rispetto al profilo dell’utente che sta visualizzando una certa pagina. Il sistema piu’ sofisticato e diffuso oggi e’ quello delle aste automatizzate. Durante il caricamento della pagina, un identificativo che permette di associare un utente alla sua attivita’ online (e talvolta offline) viene inviato a una serie di agenzie che competono in un’asta istantanea al fine di mostrargli l’annuncio piu’ pertinente per il suo profilo. Il tutto in poche frazioni di secondo e senza che l’utente si accorga di nulla. La svolta che ha portato all’imposizione di questo sistema si puo’ datare al 2007, quando Google rilevo’ la compagnia DoubleClick , che aveva costruito il proprio successo su un sistema di questo tipo e sulla creazione di un’ampia rete di inserzionisti, editori e agenzie pubblicitarie.
Visto dalla parte delle aziende che gestiscono le aste, su cui svetta Google, si tratta di un servizio che garantisce il massimo rendimento sia all’inserzionista sia all’utente: il primo dovrebbe avere la sicurezza che il proprio annuncio sia visualizzato da un utente interessato al suo prodotto o servizio; il secondo dovrebbe visualizzare inserzioni piu’ rilevanti rispetto ai propri bisogni e abitudini di spesa. Il vantaggio promesso agli editori e’ una maggiore valorizzazione dei propri spazi pubblicitari. Offrire all’utente messaggi mirati dovrebbe aumentare il numero di clic sui banner e soprattutto le cosiddette ”conversioni”, ovvero il numero di volte in cui un utente svolge l’azione suggerita, ad esempio fare un acquisto o installare una app. Piu’ e’ pertinente la pubblicita’, piu’ l’utente sara’ invogliato a cliccare, il che fa aumentare il valore di quello spazio pubblicitario.
Il sistema della pubblicita’ digitale mirata si basa su due elementi: lo sviluppo di piattaforme sempre piu’ sofisticate di profilazione e gestione delle aste, e la raccolta di dati sull’utente. Il primo aspetto tende a favorire la concentrazione del mercato perche’, come spesso capita nei settori ad alto contenuto tecnologico, sono le grandi compagnie ad avere le risorse necessarie per sviluppare le piattaforme. E quando non sono loro le prime a farlo, riescono facilmente ad acquisire eventuali nuove aziende particolarmente innovative.
Secondo un report dell’agenzia indipendente Plum relativo al Regno Unito , ”Google, Facebook e, in misura minore, Amazon (GFA) hanno una portata e un’ampiezza di mercato uniche nel mercato della pubblicita’ online, aiutata dalle loro attivita’ in settori di mercato complementari. In particolare, GFA si distinguono per la grande quantita’ di inventari di pubblicita’ posseduti (cioe’ gli annunci e le relative visualizzazioni giornaliere garantite), piattaforme tecnologiche pubblicitarie avanzate (Google in particolare), tecnologie in mercati collegati (per esempio Google Chrome e Android), e una notevole quantita’ di dati proprietari, che gestiscono in sistemi chiusi (‘walled gardens’): raccolgono i dati degli utenti da diverse fonti, ma li condividono con i partner solo in forma aggregata”. Secondo lo stesso report, Google e’ leader nel Regno Unito nella fase intermediaria degli scambi pubblicitari, gestendo il 30-50 per cento dell’offerta e il 25-35 per cento della domanda, mentre l’80-90 per cento degli editori e inserzionisti utilizza i suoi servizi.
Gestendo praticamente tutta la catena di distribuzione, si creano situazioni di conflitti d’interessi e, secondo le informazioni raccolte da Plum, in passato i pacchetti di annunci gestiti da Google erano favoriti nelle aste automatizzate, a svantaggio degli altri inserzionisti. Sembra che poi tali pratiche siano cessate. Su un aspetto della vicenda si e’ espressa il 28 ottobre l’Autorita’ garante della concorrenza e del mercato in Italia: ”Nel cruciale mercato della pubblicita’ online, che Google controlla anche grazie alla sua posizione dominante su larga parte della filiera digitale, l’Autorita’ contesta alla societa’ l’utilizzo discriminatorio dell’enorme mole di dati raccolti attraverso le proprie applicazioni, impedendo agli operatori concorrenti nei mercati della raccolta pubblicitaria online di poter competere in modo efficace”.
Attualmente, almeno 22 organizzazioni che si occupano di diritti digitali hanno presentato istanze a diverse autorita’ europee per la tutela dei dati personali. I primi a sollevare la questione pubblicamente, nel 2018, sono stati Johnny Ryan e l’associazione Open Rights Group. All’inizio del 2019, l’organizzazione polacca Panoptykon ha presentato un’istanza simile alle autorita’ di Varsavia, rivolta contro Google e Interactive Advertising Bureau (IAB) Europe, sostenendo che i loro protocolli, che determinano le categorie usate nella raccolta dei dati degli utenti, violano diversi principi contenuti nel GDPR, il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali. IAB Europe ha risposto alle accuse sostenendo che, se anche il loro protocollo permette di raccogliere tali informazioni, le compagnie che le usano sono comunque tenute a rispettare la legge sulla tutela dei dati personali, e quindi e’ su queste che bisogna vigilare, piuttosto che sul protocollo.
A fine settembre 2020, l’Irish Council for Civil Liberties (ICCL), con cui oggi collabora Johnny Ryan, ha pubblicato ulteriori dettagli sui rischi e le conseguenze che tale massiccia e continua raccolta di dati personali comporta per gli utenti. La profilazione degli utenti puo’ essere usata anche per operazioni che vanno oltre la pubblicita’, o che usano categorie sensibili degli utenti per raggiungerli con annunci commerciali. Per esempio, il data broker OnAudience, che ha la sua sede principale in Polonia, ha usato i dati di profilazione di 1,4 milioni di persone , raccolti attraverso piattaforme di pubblicita’ mirata, per mostrare un messaggio politico a persone aperte ai temi LGBTQ+.
Anche se si parla di dati anonimi, a ogni utente e’ associato un codice identificativo unico. Questo e altri ”segmenti” di pubblico costruiti da OnAudience sono inoltre acquistabili attraverso le piattaforme di aste automatizzate di Google e di altre aziende, ed e’ quindi possibile usare lo stesso database di utenti per rivolgere loro altri tipi di messaggi. ICCL ha dimostrato che attraverso il protocollo di Google sono state profilate 1.200 persone in Irlanda sotto le categorie ”abuso di sostanze”, ”diabete”, ”dolore cronico”, ”disturbi del sonno”. Con il protocollo di IAB, sempre in Irlanda, un data broker ha potuto profilare 1.300 persone sotto la categorie ”Aids e Hiv”, ”supporto di incesto e stupro”, ”tumore al cervello”, ”incontinenza” e ”depressione”.
Numeri ben piu’ alti sono quelli dichiarati da Mobilewalla, che solo in Europa sostiene di raccogliere dati sulla posizione di 117 milioni di dispositivi, per un totale di 61 miliardi di osservazioni al mese. Secondo il fondatore e CEO dell’azienda , Anindya Datta, un archivio di due anni di dati sulla posizione di una persona e’ sufficiente per costruire un’analisi dei comportamenti di chiunque. Per esempio, e’ possibile stabilire chi frequenta abitualmente una chiesa e raggiungerlo con un messaggio mirato quando vi si trova.
Recentemente, un’indagine da parte dell’Autorita’ belga per la protezione dei dati personali ha concluso che il sistema di trasparenza e consenso pubblicato dallo IAB (usato come standard di riferimento nel settore) viola diversi principi del GDPR: trasparenza, correttezza, responsabilita’ e legalita’ del trattamento dei dati. (Per approfondimenti, si veda la Circolare 7-2020 di Federprivacy)
Secondo ICCL, c’e’ in gioco anche l’articolo 5(f), sulla sicurezza dei dati, visto che non e’ possibile conoscere dove finiscano i dati una volta raccolti. La piu’ recente evoluzione giudiziaria riguarda l’organizzazione Open Rights Group, che ha deciso di fare causa all’Autorita’ inglese per la protezione dei dati personali . Questo perche’ l’ICO (Information Commissioner’s Office), dopo avere stabilito nel 2019 che il sistema della pubblicita’ mirata operava in violazione del GDPR, ha comunque deciso di chiudere l’indagine a settembre di quest’anno, nonostante le sue stesse indicazioni non siano state applicate dagli operatori del settore.
Abbiamo chiesto un parere su questi aspetti a Paul De Hert, tra i massimi esperti in Europa sul rapporto tra privacy e tecnologia, e ad Alessandro Ortalda, ricercatore all’universita’ di Bruxelles. I due ci hanno confermato il contrasto da sempre esistente tra pubblicita’ online e protezione dei dati personali, soprattutto in termini di trasparenza. Quest’ultima riguarda sia le informazioni fornite, sia il modo in cui queste sono presentate. ”Nel contesto della navigazione su internet, in cui gli utenti saltano rapidamente da un contenuto all’altro, e’ difficile per il responsabile dei dati mettere a punto pratiche di gestione della privacy e moduli di raccolta del consenso che catturino l’attenzione delle persone. Queste infatti sono solite accettare frettolosamente tutto cio’ che compare sullo schermo e puntare dritto al contenuto che stanno cercando. Cio’ compromette l’efficacia della condivisione delle informazioni e puo’ rendere nullo il consenso fornito dall’utente, che potrebbe non configurarsi come ‘informato’”.
L’associazione di categoria dell’industria digitale Digital Content Next, che ha tra i suoi membri alcune delle maggiori testate internazionali, ha dichiarato nel 2019 che se anche dovesse sparire il sistema della pubblicita’ digitale mirata ”non cascherebbe il mondo”. A gennaio 2020 la televisione pubblica nazionale olandese NPO ha dichiarato di avere rimosso dai siti web del network ogni sistema di tracciamento dell’utente, scegliendo di vendere gli spazi pubblicitari solo su base contestuale. Secondo i dati condivisi da NPO e pubblicati da Brave , nei primi due mesi dell’anno la raccolta pubblicitaria della rete e’ aumentata rispettivamente del 62 e del 79 per cento. Da marzo, a causa della pandemia, il ritmo dell’incremento si e’ decisamente ridotto, ma la tendenza non si e’ comunque invertita.
E’ lecito dunque chiedersi se la pubblicita’ basata su aste automatizzate offra davvero dei vantaggi reali agli attori del mercato, oltre a chi gestisce le piattaforme di transazione. Secondo il ricercatore statunitense Tim Hwang , si sta formando una grande bolla attorno al settore della pubblicita’ digitale. Per il momento prevale un atteggiamento di generale fiducia nel fatto che ”una cosa cosi’ complessa non puo’ non funzionare”, ma presto ci si potrebbe accorgere che in realta’ il sistema di competizione per l’assegnazione degli spazi pubblicitari non produce un valore aggiunto significativo. Nel suo recente libro ”Subprime attention crisis ”, Hwang spiega che il problema principale rispetto alla misura dell’efficacia del sistema e’ che chi pubblica i dati coincide con chi offre i servizi: ”IAB e la Association of National Advertisers sono tra i principali punti di riferimento per la ricerca nel mercato della pubblicita’ online, ma al contempo rappresentano gli interessi di tale industria. Manca un’istituzione solida e indipendente che faccia da contrappeso, che metta alla prova la veridicita’ delle loro affermazioni e faccia esperimenti per testare lo stato di salute del mercato”.
Il sistema della pubblicita’ digitale ha un problema di efficacia che precede l’introduzione delle aste automatizzate. Il tasso di clic sugli annunci del servizio AdWords di Google e’ dello 0,46 per cento (meno di una persona ogni 200), inoltre sembra che fino alla meta’ degli accessi da smartphone provenga da utenti che hanno toccato per sbaglio su un annuncio. Un altro elemento che influisce sulla misurabilita’ dei risultati e’ il fatto che molti di essi non saranno mai visualizzati dall’utente: se anche il sistema di aste determinasse con grande precisione quali annunci mostrare negli spazi della pagina, questi potrebbero essere caricati in fondo alla stessa o in aree poco visibili.
Quello della visibilita’ degli annunci e’ un problema conosciuto dagli operatori, come dimostra un report di Google del 2014 dove si suggerisce che il 56,1 per cento delle pubblicita’ caricate online non siano mai viste da un essere umano. Per quanto ne sappiamo finora, dunque, l’industria della pubblicita’ mirata e’ riuscita comunque nel suo intento di farsi percepire come indispensabile da inserzionisti ed editori. Per farlo ha istituito un sistema che mette in crisi alcuni principi chiave di tutela della privacy e della protezione dei dati personali, con pratiche forse illegali. Sulla reale efficacia di tali strumenti, restiamo in attesa di ricerche piu’ approfondite.
Fonte: Italia Oggi del 14 dicembre 2020 – articolo di Francesca Bormioli