Entrare nel profilo Facebook di mogli o ex fidanzate, che abbiano spontaneamente comunicato le proprie credenziali di accesso, è comunque un reato se questo avviene contro la loro volontà. La Cassazione con le sentenze n. 2905/2019 e n. 2942/2019 ha toccato un punto nevralgico dell’accesso abusivo a sistema informatico, reato a tutela della libertà individuale previsto dall’art.615 ter del Codice penale.
E la decisione della Suprema Corte è stata adottata respingendo la tesi difensiva secondo cui la condivisione di username e password con il partner costituirebbe di fatto un consenso all’accesso informatico sul social dell’altro e di cui, in modo lecito, si posseggono le chiavi di accesso.
Non scatta, quindi, alcuna scriminante del reato di accesso abusivo a sistema informatico se si fotografano chat intrattenute su Facebook o se addirittura si utilizza il profilo social simulando di essere lo stesso titolare del profilo, evenienza in cui scatta anche il reato di sostituzione di persona previsto dall’art.494 del Codice Penale.
Per i giudici non scatta automaticamente alcuna scusante dalla lecita conoscenza delle chiavi di accesso, e men che mai se si modifica la password impedendo l’accesso al legittimo titolare, o se si utilizza il social per ingiuriare terzi sotto la falsa identità di chi formalmente appare.
La pluralità degli accessi e la finalità per cui si realizzano esclude inoltre il beneficio della non punibilità (articolo 131 bis del Codice penale) trattandosi di condotte reiterate che poi, nel caso della sostituzione di persona, sono aggravate dalla continuazione tra questo reato previsto all’articolo 494 del Codice penale e quello dell’abusivo accesso.
Infine, rilevano anche le risposte con cui i giudici hanno respinto altre tesi difensive, come la mancata prova della presenza dell’imputato nelle vicinanze del computer, da cui risulta un episodio di accesso, non esclude di per sé il reato dell’articolo 615 -ter del Codice penale, se incontestati sono tutti gli altri ingressi su Facebook.
E lo stesso ragionamento vale se manca la prova da quale indirizzo IP di Internet sia stata fatta la modifica delle chiavi di accesso al social. Questa, infatti, è circostanza che “non oblitera il fatto accertato e incontestato dei plurimi accessi”. Nelle due vicende i fatti erano in un caso l’acquisizione di una chat, fonte di lite tra due coniugi, e poi prodotta ‘a carico della moglie’ in sede di separazione; e nell’altro il sostituirsi alla ex per ingiuriare il rivale.